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La strada alla fine del mondo
Conservo
in una cartellina ritagli di giornale, recensioni, appunti.
Sincronicità mi riconducono di tanto in tanto a questo piccolo
archivio.Ci trovo una pagina strappata da una rivista, la recensione di tre diversi libri sull'Alaska. La prendo e la ripongo piegata in otto nel portafogli. Alcuni giorni dopo entro in libreria ed acquisto due dei tre libri.
L'Alaska è uno dei miei sogni ricorrenti di trekking. Il primo libro che leggo è L'isola di Sukkwan di David Vann.
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E'
la storia di un padre, Jim, che dopo due matrimoni ed alcuni lavori
andati male cerca la redenzione in una sperduta isola dell'Alaska, dove
ha comprato una baita. Il progetto di Jim è ricostruirsi
seguendo le dure regole dei tempi dei tempi: alzarsi con il sole,
coprirsi dal freddo, cacciare cervi, pescare salmoni, spaccare legna,
riposare al caldo della stufa, coricarsi con il buio. Con lui,
sull'isola, è andato Roy, il figlio tredicenne che non ha saputo
dire di no a nessuna delle due richieste del padre: quella esplicita,
di accompagnarlo, e quella implicita, di aiutarlo. Il libro, come
già il film Into the wild,
chiarisce con grande forza quanto la natura sia insensibile al nostro
affanno, ragion per cui l'uomo è da sempre in cammino per
allontanarsene - salvo scoprire quanto gli sia vitale non
allontanarsene troppo. Lo chiarisce per la prima metà,
perché poi prende una direzione inaspettata. E quando termino di
leggere l'ultima pagina -solidarizzando nel profondo con Chuck e Ned-
sono felice che questa storia melmosa, nera e sconclusionata sia
finita. Ispirandomi ad una memorabile scena del film Caro Diario cerco di ricordare chi avesse scritto bene di questo libro. Ma mentre Nanni Moretti aveva conservato la recensione di Henry pioggia di sangue
io la mia l'ho gettata via dopo gli acquisti, così non so
più chi devo ringraziare per questo tiro mancino. Perché
possiate capire: immaginate. Immaginate di leggere la seguente
recensione: "Per cercare di ritrovarsi come uomo e come scrittore
accetta un lavoro stagionale da custode invernale. L'albergo, aperto
solo in estate, si trova in una quieta e selvaggia zona di montagna,
dove l'uomo si trasferisce con la famiglia". Vi lasciate convincere, vi
sedete davanti allo schermo, e quando appare Jack Nicholson che
squarcia la porta a colpi di ascia con quel ghigno maledetto cosa
pensate di una simile recensione??? Ecco. Rientrando dalla digressione:
se fossi il titolare di un corso di
scrittura creativa, farei senza dubbio leggere L'isola di Sukkwan.
Non per sadismo, ma per fare con la classe un lavoro importante.
Infatti dopo farei anche leggere il primo dei quattro racconti di Notte buia, niente stelle
di Stephen King. Capire, spiegare, svelare. Smontare e ricostruire le
due storie, così simili e così diverse. Henry e suo padre
(King), Roy e suo padre (Vann). Un racconto magistrale, un racconto
mediocre. In entrambi; cadaveri, padri, madri, figli, topi, sangue che
prima rapprende e poi marcisce. Uno avvince, l'altro no.
Il secondo libro che leggo è La strada alla fine del mondo
di Erin Mckittrick. L'autrice, Erin, è una biologa, come il
marito, Hig. Insieme convocano amici e parenti sul prato della loro
classica casetta americana, dove hanno ammucchiato divani, libri,
scarpe, quadri, ed un grande cartello: TUTTO GRATIS. Aprono delle
bottiglie, brindano, salutano, iniziano a camminare. Oltre 6000 km,
fino all'estremo nord dell'Alaska.
Un libro che riconcilia, ma con un elevato potenziale di noia. Voglio
dire: io cammino, li ho capiti, ho capito anche la prosa scarna,
cronachistica, e mi è piaciuto leggere le loro giornate. Ma non
mi sento di consigliarlo, davvero no. Però è sullo
scaffale della mia libreria dedicato ai libri di montagna e di viaggio,
a disposizione. 6000 km rigorosamente senza mezzi a motore: a piedi o
in canotto. Eh già... perché camminare 50 o 70 km per
aggirare un fiordo? Più rapido e meno faticoso (?) gonfiare un
piccolo canotto e pagaiare da una sponda all'altra. Magari tra onde
alte e blocchi di ghiaccio. Nel loro zaino da trekking, perciò,
hanno stipato anche un canotto (uno a testa, piccolo e leggero). Le
pagaie, alla sera, fungevano da paleria della tenda. E le mute
indossate per andare in canotto sono risultate preziose anche come
seconda pelle durante i mesi invernali a terra: in Alaska fa freddo
davvero, e tira un vento micidiale. Il viaggio è durato
più di un anno, e li ha cambiati per sempre. Nella loro piccola
tenda Erin e Hig hanno concepito un figlio, ed oggi risiedono in un
villagio alaskano senza asfalto. Il terzo libro che leggo non parla di
Alaska, ma di Mali, Niger, Libia.
Lo devo sempre alla mia cartellina, ne parlava un mio amico in una
email stampata e conservata. L'autore è un giornalista
autentico, Fabrizio Gatti, uno che le notizie le cerca e le vive. Anche
questo è un libro di viaggio e scoperta, ma senza neve.
Inizia a Milano, quando Fabrizio Gatti si finge curdo ed entra come
muratore in nero nei vari cantieri dell'operosa capitale del nord
Italia. L'inchiesta è pubblicata sull'Espresso, ed è una
freccia scoccata in volo che non si è più arrestata. Ho
scritto di Alaska solo per invitarvi a leggere in realtà Bilal, un libro che aiuta noi italiani a conoscerci meglio. |
(aprile 2012) |
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Recensione di:
McKittrick, E., La strada alla fine del mondo (2009). Trad. it Bollati Boringhieri editore, 2010.
(acquistato per 16,50 euro; tempo di lettura, 10 ore/treno)
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