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The chosen

La comunità ebrea di Brooklyn, a cavallo della Seconda Guerra Mondiale, è il luogo nel quale sono ambientati il primo e il secondo romanzo di Chaim Potok, rabbino, pittore, saggista, prolifico scrittore, nato nel 1929 e morto nel 2002, intitolati rispettivamente “The chosen” e “The promise”. Nelle edizioni italiane: “Danny l’eletto” e “La scelta di Reuven”. Danny, ebreo chassidico, uscirà dal solco inciso nella sua vita dal padre rifiutando di raccoglierne l’eredità come guida della comunità, per divenire psicologo. Reuven, ebreo ortodosso, resterà legato al padre ed alla sua innovativa metodologia di lettura critica del Talmud e di ogni altro testo sacro, base sicura per il suo cammino nella vita.

Il secondo libro è il seguito del primo, e in quest’ordine a mio avviso andrebbero letti, magari a distanza di anni, data la densità delle vicende, che necessitano di sedimentazione. I libri di Chaim Potok sono una porta che si schiude su un mondo antico e misterioso, sono nutrienti e fonte di ispirazione, sono un monumento di laicità, sono romanzi di formazione.
 

In “Danny l’eletto” la costruzione dell’amicizia tra Danny e Reuven prende avvio da un doloroso incidente su un campo da baseball che avrebbe inimicato per sempre chiunque, ma non loro due. In un momento difficile di questa costruzione, il padre di Reuven gli dice: “Due cose sono importanti nella vita di un uomo, e se accadono tale vita è benedetta: incontrare un maestro e avere un amico” (cit. a memoria). Ecco, questo è uno dei fondamenti della scrittura di Potok: è rivolta al cuore della vita, ai mattoni veramente importanti su cui edificare noi stessi. Reuven e Danny apprendono che l’avversario non è un nemico, che il rispetto non deve venire meno nel dissidio,  non solo come regola di civiltà ma anche come regola di “best practice”: tanto maggiore è il rispetto per l’avversario tanto maggiore sarà l’efficacia della mia azione, sia per la maggiore serenità che saprò mettervi, sia per la minore resistenza con cui sarà accolta.

La religiosità dei personaggi di Potok emerge sopra ogni cosa nel fatto che agiscono giorno dopo giorno con lo scopo di identificare a quale fine dedicare la propria vita. Non è un appannaggio esclusivo di chi crede, ma loro agiscono in questo modo spinti dalla propria fede. Non è una cosa piccola. La maggioranza delle persone si lascia vivere. Una minoranza ha degli scopi: il successo nel lavoro, la vetta dell’Everest, tre figli. Ma pochissimi hanno dissodato sé stessi così tanto da scegliere a quale fine dedicare la propria vita. Serve applicazione, serve fatica, servono delle prove che costringano a compiere delle scelte – e ogni scelta implica una rinuncia. Nel film Lo Hobbit il benestante e arrivato Bilbo Beggins viene stanato da Gandalf in Grigio e “costretto” a scegliere tra stare e andare. Sceglie il viaggio con i nani anche perché sente di non avere ancora identificato a quale fine dedicare la propria vita. Nei libri di Potok è quasi sempre il Talmud a stanare i protagonisti.

 

Nel 2008 Einaudi ha raccolto in un unico volume la cosiddetta Trilogia della Frontiera dello scrittore texano Cormac McCarthy. La prefazione del volume è di Alessandro Baricco, ed è molto bella. Scrive tra l’altro: <<La musica di McCarthy è lenta. I suoi libri aprono un tempo molto particolare, indescrivibile, bisogna provare. Impongono un tempo (di solito un buon indizio per riconoscere il grande scrittore). Ti rallentano>>. La stessa cosa accade con la musica di Potok, ciò che mi scalda e mi cura, perché io invece sono affrettato, trovo difficile rallentare, tendo sempre a sovraimporre le mie to-do-list ai ritmi naturali della vita (uno dei motivi per cui cammino in montagna è esattamente questo: vivere un tempo rallentato, più naturale, dove ogni momento occupa il proprio spazio auto-evidente).

 
Nella preparazione del materiale per Roverway 2006, un campo scout che ha visto circa quattromila giovani dai 16 ai 22 anni provenienti da tutta l’Europa raccogliersi in Toscana per una settimana, decidemmo di inserire nel quaderno di campo anche un brano tratto da “Danny l’eletto”, questo: <<“Gli esseri umani non vivono in perpetuo, Reuven. Viviamo meno di quanto dura un batter d’occhio, se si commisurano le nostre vite all’eternità. Può quindi essere lecito chiedere qual è il valore della vita umana. C’è tanta sofferenza, in questo mondo. Che significa dover tanto soffrire se le nostre vite non sono nient’altro che un batter d’occhio?”. Si interruppe di nuovo, e aveva lo sguardo velato, adesso, poi riprese. “Reuven, ho imparato molto tempo fa che un batter d’occhio è nulla, di per se stesso. Ma l’occhio che batte, quello sì che è qualcosa. Lo spazio di una vita è nulla. Ma l’uomo che la vive, lui sì che è qualcosa. Lui può colmare di significato questo spazio minuscolo, cosicché la sua qualità sia incommensurabile, sebbene la quantità possa essere irrilevante. Comprendi quel che dico? L’uomo deve colmare la sua vita di significato, il significato non viene attribuito automaticamente alla vita. E’ un compito duro, bada, e questo non credo che tu lo comprenda, per ora. Una vita colma di significato è degna di riposo. E io voglio esser degno di riposo quando non sarò oltre quaggiù”>>.

               (febbraio 2014)
Recensione di:
Potok, C., Danny l'eletto. Garzanti.