Nel
2005, sempre per Versante Sud, Fabio Palma pubblica un altro libro, “Solitari”,
che riprende una fiaccola accesa da alcuni degli intervistati in “Uomini &
Pareti” – su tutti, a mio avviso, Pietro Dal Prà – e ci soffia sopra, fino a
farla divampare. Un incendio meraviglioso. La fiaccola è quella della
introspezione, la capacità che hanno pochissimi di ragionare su cosa ci accade
quando viviamo certe esperienze, di sapere mettere su inchiostro il salto in
avanti in termini di consapevolezza che l’arrampicata comporta, di rendere nuda
la mente, per usare l’immagine di Steve House. La fiaccola divampa per due
ragioni. La prima è il passaggio dall’intervista al contributo libero; per fare
introspezione non vanno bene le domande di un estraneo, serve invece il
raccoglimento, un foglio bianco, i propri pensieri, «una stanza tutta per sé»
come disse Virginia Wolf. La seconda ragione è la scelta dei soggetti: non più
fortissimi climber, ma fortissimi solitari (su roccia, in grotta, su neve). SO-LI-TA-RI.
Si può storcere il naso fino a farselo staccare, ma non c’è nulla da fare: che ci
piaccia o meno, la solitaria amplifica le sensazioni, aumenta la concentrazione,
scolpisce il vissuto nella nostra memoria.
Peter Croft
Anni
fa nelle sale cinematografiche fu proiettato un documentario naturalistico
girato con una tecnica inusuale: il punto di vista degli insetti. Le gocce di
un temporale erano vere e proprie bombe d’acqua, rumorose, e un piccolo
smottamento di terra una frana fragorosa. Anche nelle piccole esperienze che ho
potuto fare io, a piedi sulla Majella e sul Gran Sasso, la solitaria ha avuto
questo effetto: amplificare. Sei da solo, non hai rete di protezione, non hai
nessuno con cui condividere le responsabilità: la concentrazione è massima, i
sensi aperti sparati, sei sul pezzo come poche altre volte, totalmente
nell’azione del momento. Cosa intendo per concentrazione? Vi è mai capitato di
uscire in macchina per andare a pranzo da un amico e ritrovarvi invece sotto
l’ufficio o nel parcheggio della palestra d’arrampicata? In casi simili, avete guidato
con il “pilota automatico”, mentre la mente era altrove, in pensieri suoi. La
concentrazione è l’opposto della distrazione. Cosa intendo per essere
totalmente nell’azione del momento? Vi è mai capitato di scalare un monotiro facile
pensando a un problema familiare o alle tette della climber sulla via di
fianco? In casi simili, la sera a cena, sarete in grado di descrivere sì e no
un paio di movimenti dell’intera via. Quando invece sbagliate via in montagna,
e vi ritrovate a scalare sprotetti su terreno imprevisto per molti metri, ogni
altro pensiero scompare, siete pura azione. E non solo la sera a cena, ma per molti
anni, sarete in grado di ricordare ogni singolo metro di quella roccia.
Alex Huber
Si
può fare solitaria in orizzontale, come ho fatto io, si può fare solitaria in
verticale auto-assicurandosi nei passaggi difficili, come fanno alcuni, si può
fare solitaria in verticale slegati e senza neanche l’imbraco, come Alex Huber
sulla Hasse-Brandler. Quale esperienza si vive così facendo? Riporto dal libro questo
pezzo di Ben Heason: «Tu e la roccia, nient’altro […] Nessuna protezione, e
nessuna regola. Nessuno ti assicura, e riflettete bene sul significato del
termine. Le nostre azioni sono sempre pensate con in mente una assicurazione,
una sorta di garanzia in caso di insuccesso. La corda, nella scalata, è
l’assicurazione scelta. E invece io scelgo me stesso come assicurazione, piedi
e mani, e soprattutto calma, nel corpo e nella mente. La sensazione è unica,
sono nel pieno della consapevolezza e della tranquillità interiore […]
Arrampicare slegato è una forma di meditazione, esci dal mondo e in quella
bolla dove ti inoltri non può entrarci nessuno. Come nella meditazione è
richiesta una concentrazione totale, così la solitaria senza corda esige un
livello di disciplina mentale assoluto. Nei miei primi giorni di arrampicata mi
ero coniato un mantra che reputo tutt’ora interessante: Se, arrampicando
slegato, ti dovessi trovare a pensare a qualcos’altro, scendi immediatamente a
terra, anche se sei sul facile».
Valery Babanov
C’è
una bella differenza, però, tra meditazione e arrampicata: i maestri zen sono
seduti, al più in piedi, pertanto se cadono non si fanno male. Il libro
affronta molti degli aspetti legati al rischio, ma non risponde a Georges
Livanos, scalatore marsigliese del ‘900, che ebbe a dire: «La velocità di una
cordata dipende dalla sua abilità, dalla sua prudenza o dalla fortuna? Si
tratta di confini molto labili […] credo che non tutti i record siano dovuti al
virtuosismo tecnico soprannaturale dei loro autori, l’ho potuto verificare
grazie alla frequentazione di un solista straordinario. “Purché duri” pensavo
allora, e non è durato». Quando Tomaz Humar muore durante una solitaria sul Langtang
Lirung, possiamo dire che non era preparato abbastanza? Possiamo dirlo di
Humar? Quando John Bachar muore durante un free-solo dietro casa, possiamo dire
che non è stato capace di adeguata concentrazione? Possiamo dirlo di Bachar? Il
libro affronta molti degli aspetti legati al rischio, ma senza andare veramente
in profondità. Non è facile, lo riconosco, io stesso non saprei da che parte
cominciare, eppure ho speso i miei anni universitari studiando scienze
statistiche e attuariali ed ho dedicato il dottorato di ricerca allo studio dei
portafogli finanziari, e alla base di tutto c’era sempre lui, il rischio. La misurazione
del rischio. La propensione individuale al rischio. Il prezzo del rischio (risk-pricing, nella fortunata e ormai
diffusa terminologia tecnica anglosassone). La gestione del rischio. Un
esempio, uno solo, volutamente lontano dall’alpinismo e dalla finanza, il più estremo
possibile perché sia il più chiaro possibile: una pistola ha un tamburo per alloggiare
sei proiettili, ma dentro ne è stato caricato uno solo. Si chiama “roulette
russa”: faccio dare una bella girata al tamburo, mi punto la canna alla tempia,
schiaccio il grilletto. Ho una probabilità su sei di farmi saltare il cervello
(cioè una probabilità del 16,67%). Se io proponessi questo “gioco” a una cena
tra amici mi darebbero del pazzo e mi legherebbero a una sedia per rendermi
inoffensivo. La maggior parte di quegli stessi amici, però, conduce una vita
sedentaria e indulge in vari peccati: i dolci, gli insaccati, le bevande
zuccherate, le sigarette. Il loro stile di vita è rischioso, e hanno negli anni
una probabilità di sviluppare un tumore (o un diabete) assai maggiore del
16,67%, eppure nessuno interviene e nessuno li rimprovera. La misurazione del
rischio è quindi cruciale: per ritenere più pericoloso scalare slegati la
domenica che andare con lo scooter a lavoro tutti i giorni dobbiamo basarci su una
metodologia scientifica di analisi, non su sensazioni personali. Altrimenti il tutto
si riduce a una mera conta di pregiudizi favorevoli e contrari al free-solo.
Serve altro. Serve, soprattutto, iniziare a farlo. Mi permetto allora un
suggerimento a Fabio Palma, che è anche una proposta interessante: un terzo
libro, “Andati e restati”, con le biografie di Derek Hersey, Walter Nones,
Jean-Christophe Lafaille, Slavko Sveticic, Hermann Buhl, Pierre Beghin, John
Bachar, andati in montagna da soli e mai ritornati. Accanto alle biografie, le interviste
a chi è restato a casa ad aspettarli: i genitori, le mogli vedove, i figli
orfani, per sapere cosa hanno provato, cosa pensano. Si tratta di una esigenza:
capire di più, entrare nella zona d’ombra, seguire la traccia battuta nel libro
da Pietro Dal Prà fin dal titolo del suo contributo: “Non è tutto oro quello
che luccica”.
Alain Robert
“Solitari” è un libro
importante, pensato e realizzato con amore e competenza, un libro che dà tanto.
Per dire: nella mia personale classifica di libri di montagna lo piazzo al
secondo posto, dietro “Confessioni di un serial climber” di Mark Twight.
Ovviamente non tutti i 26 brani sono ugualmente densi, ma nel complesso il
livello è maledettamente alto. Notevoli anche le introduzioni di Fabio Palma,
che quando fa il giornalista è veramente bravo: competente e innamorato. Quando
fa lo scrittore, invece, si perde, diviene autoreferenziale. Ho letto
praticamente tutto quanto scritto dall’attuale presidente dei Ragni di Lecco: i
libri sull’arrampicata, decine di numeri della rivista “Stile Alpino”, il
romanzo “Genius”, i suoi articoli su Facebook; ripeto, gli riconosco meriti
enormi in fatto di produzione culturale, ma con altrettanta sincerità devo dire
che non ha il talento della scrittura. Il capitolo finale “Inquietudini” non
funziona, non è necessario, senza di esso il libro sarebbe migliore: più asciutto
e incisivo. Come la scalata di un solitario.
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